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Andare via a modo mio da quel posto di lavoro tossico

Saper andare via è quasi un’arte. Tutto conta: il tempismo, cosa dire, cosa evitare di dire, le giustificazioni da usare come risposta, le motivazioni che ci fanno vibrare, il pensiero di ciò che ci aspetta.

Oggi voglio raccontarti come lei se ne è andata via da un posto di lavoro tossico. A modo suo, sapendo quale ricordo voleva lasciare di sé.

Prima però devo presentartela, anche perché non ho ancora mai scritto nulla su questo percorso. Vive all’estero anche se è italiana, ama i film di Ken Loach (a dire il vero dice che lo ama proprio), parla con accento inglese e ogni tanto le scappa qualche frase in dialetto veneto (la sua terra d’origine).  

Ci ha presentate una sua amica che è a sua volta una mia coachee. Quando si sono riviste, a giugno, mi hanno mandato una loro foto insieme (sembrano sorelle!). Confesso che sono entrambe due battagliere che mi emozionano ogni volta che le sento.

Ma restiamo su quell’uscita di scena di cui ti volevo raccontare.

Una donna sorridente ha scelto di andare via a modo suo dal posto di lavoro tossico
Photo depositedhar/depositphotos

Andare via era già previsto

A maggio, quando abbiamo definito il patto di coaching, la mia nuova coachee sapeva già di voler andare via da quell’azienda. Possibilmente cercando qualcosa più vicino alle sue passioni.

In quel periodo non c’era particolare fretta e abbiamo concordato che dovevamo concentrarci su:

  • esplorare il suo potenziale e i suoi talenti
  • farla migliorare nel concretizzare le sue idee (invece di essere “sempre per aria”).

Stavamo lavorando bene. 

Ai primi di ottobre abbiamo fatto una sessione per vedere a che punto eravamo.

C’erano stati dei bei progressi: era diventata più consapevole delle sue capacità e aveva iniziato un corso inerente la sua passione.

Forse ciò di cui andavo più fiera era il fatto che stava imparando ad apprezzare i suoi pensieri, a riconoscere che aveva qualcosa di bello da dire al mondo e a far sentire la sua opinione.

Diciamo che stare zitta non era più la sua normalità.

Poi, a metà ottobre, la doccia fredda. 

Mi sono ritrovata un suo vocale che durava 7 minuti e 52 secondi. Ho capito che qualcosa non andava. Ho preso le cuffiette per non perdere nemmeno una sillaba. Iniziava strappandomi un sorriso:

“Ciao Paola. Ti stavo lasciando un messaggio di un’ora, mi hai fatto pena e l’ho rifatto”. 

In estrema sintesi, avevano accelerato la sua uscita dall’azienda e l’avevano messa di fronte a un bivio: o se ne andava (accettando una cifra irrisoria che la vincolava a non parlare) o iniziava un percorso che, mi ha spiegato, nel suo paese adottivo è l’occasione per accanirsi ancora di più fino a licenziare per manifesta improduttività.

Mentre l’ascoltavo, prendevo appunti. Ho disegnato un bivio. Mi sono ricordata che, non molto tempo prima, le avevo dato un feedback, questo:

“Fai spesso questo errore di ragionare solo su due ipotesi.

Faccio questo o quell’altro? Questo o quell’altro?

Quando ragioni così la tua mente si sente intrappolata, fa come quando guardi una partita di ping pong.

Ping-Pong-Ping-Pong. Destra sinistra, sinistra destra. Destra sinistra, sinistra destra.

Non viene fuori un gran dialogo fra te e la tua mente restando ferma a due opzioni.

Quando ti accorgi che ti senti intrappolata perché stai ragionando solo su 2 ipotesi, obbligati ad allargare le ipotesi. Vanno bene tutte le risposte, anche se non la prenderesti mai in considerazione. Le prime risposte sono sempre banali e poco creative. È normale: sono quelle a cui sei più abituata. Se ti sforzi di allargare il ventaglio di ipotesi, qualcosa che ti convince (per davvero, non come costrizione), c’è sicuro.” 

Come andare via?

Era passata qualche settimana fra il mio feedback e la proposta dell’azienda. 

Aveva riconosciuto il bivio di fronte al quale l’avevano messa? Si ricordava cosa doveva fare?

Superata la fase in cui mi descriveva la situazione, il vocale procedeva e io la sentivo molto sicura del fatto suo. Una bella novità.

“Sono rimasta calma, fredda. Devo trovare un avvocato per chiedere quali sono le altre mie opzioni.” 

“Quali sono le altre mie opzioni”. Quella frase, quella ricerca di tutte le opzioni possibili, mi indicava che stava mettendo a frutto il mio feedback. 

Avevano provato a metterla alle corde con un bivio di opzioni, ma lei aveva imparato a uscirne allargando il suo spettro di scelte possibili.

E qui inizia quel pezzo di storia che davvero mi preme raccontare. Da quando la mia coachee decide: se devo andare via, vado via come voglio io.

L’avvocatessa con cui si è confrontata ha capito subito che la presunta improduttività, causa di tutto quello scompiglio, era solo un pretesto e che si trattava di un licenziamento senza giusta causa. Ma si rischiava di infilarsi in mesi e mesi e mesi di tribolazioni per dimostrare punto per punto ciò che non era vero. Aggiunse che sarebbe stato sensato chiedere di più di quello che proponevano per il suo silenzio.

La mia coachee ci ha pensato e qualche giorno dopo ho ricevuto un altro vocale di aggiornamento.

La scoperta della terza via

“Paola. Più leggo la loro offerta e più sono sicura di me stessa che ti giuro non mi è mai successo nella vita. Sono sempre scappata da queste cose e ho sempre messo in questione me stessa. Ma ora sono sicura di quello che penso. Loro mi stanno mettendo fretta. La mia capa ha fretta e sta facendo degli errori. Mi sembrava di non avere una scelta, invece io ho una scelta. Non devo firmare una loro proposta. Rifiuto la loro offerta e mi licenzio. Se devo andare via, vado via come dico io. Io non credo li denuncerò, ma così, se cambio idea, posso farlo.”

Aveva trovato la terza opzione. Quella che la toglieva dalla sensazione di essere in trappola e la rimetteva in controllo della situazione.

Vado via a modo mio.

Se fosse un film, siamo agli ultimi densissimi minuti. Non fai più caso alla poltrona, alla temperatura, sgranocchiare popcorn ti dà fastidio perché temi di perderti qualche parola importante. 

L’ufficio del personale le propone di diramare la versione ufficiale per cui lei, dopo un periodo di vacanza, ha deciso di andarsene.

“No. Gli ho cambiato il messaggio. Semplicemente mi sono dimessa.”

Ma infatti. Quale vacanza? Lavorava 10/12 ore al giorno, stava costruendo dei progetti importanti con i mercati esteri. Come è venuta loro l’idea di far passare quest’immagine di lei spensierata che, fra un cocktail e un bagno in acque limpide, decide di andarsene dall’azienda?

Oltretutto, volevano diramare proprio quell’immagine di lei “sempre per aria” che era uno dei punti del patto di coaching su cui stavamo lavorando insieme affinché sparisse.

E difatti si è dimostrata molto concreta e ha rifiutato, di nuovo, la loro proposta.

Lei, che si è sentita trattata come una scarpa vecchia da buttare, ci teneva che non si comunicasse nulla che alleggerisse la situazione. C’era della pesantezza e doveva restare.

Andare via con un gran finale

A questo punto si sentono le prime note di “My Way” di Frank Sinatra in lontananza.

L’ultimo giorno stava andando in pausa con i colleghi quando il direttore del personale le si avvicina cercando di abbracciarla.

Lei si allontana e tira fuori la sua voce, lì in mezzo a tutti.

“Voi non avete idea di cosa succede fra il personale, nessuno ve lo dice. Io ho parlato e guarda cos’è successo a me.

Parlate tanto di salute mentale, ma è solo un cliccare delle caselle.

Quando trattate sui nostri stipendi è per avere un po’ più di profitto, è quasi un gioco per voi. Per noi è mangiare, avere un tetto sulla nostra testa, dare da mangiare ai figli, pagare i mutui, per noi è sopravvivenza, è roba seria!

Perciò la gente non ti viene a dire che è scontenta.”

“Mi dici anche chi è scontento? 

“No. Ma faccio prima a dirti chi è contento. C’è un sacco di gente che sta male e ascoltate solo i manager.

Quando dite che ci tenete a noi, dov’eri quando io avevo bisogno?

Da quando è arrivata XXXXXXXX non puoi non sapere quanta altra gente si è lamentata.”

Come in un film di Ken Loach. 

“Mi sono sentita forte, Paola. Mi sono arrivati un sacco di messaggi, pazzesco. Chiedono cos’è successo e io dico la verità perché io non ho firmato la loro proposta. Tutti mi hanno detto: denunciali.

Questo qua è venuto a pacificarmi, voleva mandare il messaggio davanti a tutti che ero a posto con loro.

Non esiste.”

Non so cosa avrei dato per assistere alla scena in diretta!

La donna che a maggio pensava di se stessa “vengo schiacciata se alzo un po’ la testa” si è ribellata a ogni tipo di uscita di scena che le veniva (imposta) proposta; la professionista che non era sicura del suo contributo a lavoro, è diventa consapevole del suo valore; la dipendente che incolpava se stessa quando le cose andavano male, ha imparato a distinguere le responsabilità degli altri e a metterle sotto gli occhi di tutti. 

“Istruzioni per vivere la vita: presta attenzione. Fatti stupire. Raccontalo.”

Mary Oliver

Colei che pensava di non aver niente di importante da dire, ha alzato la voce e ha proclamato il malessere diffuso nell’ambiente tossico, anche a nome dei suoi colleghi che non potevano parlare.

Sono 3 giorni che lavoro a questo articolo. Mi sono riascoltata tutti i vocali degli ultimi 2 mesi. C’è un messaggio in cui mi dice:

“So che doveva succedere. Magari non in questo modo, ma dovevo venire via.

Da oggi, della mia vita, ne facciamo di tutti i colori.

E di nuovo mi conferma che ha imparato a ragionare solo su un vasto ventaglio di opzioni. 

Andare via è stato un canovaccio scritto da altri in cui lei ha avuto l’abilità di riprendere il controllo di ciò che era stato previsto per il suo personaggio e far cambiare il significato di tutta la storia.

Ora si tratta di progettare il suo futuro, scrivendolo con la propria testa e con l’istinto di comunicare che la sta chiamando a una nuova vita.


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